lunedì 6 dicembre 2010

L'università italiana: brevi appunti dal mondo reale (Prima parte)

In tema di università le dichiarazioni ormai si limitano ad inutili frasi ad effetto e, come sempre, non esiste una seria e magari noiosa trasmissione televisiva d'informazione ma un fiorire di rumorosi e colorati programmi che intrattengono il telespettatore, lo eccitano, lo aizzano, facendogli credere di essere parte di qualcosa e alla fine non gli spiegano nulla. Ciò che resta è un effimero incattivimento e il solito elementare trasferimento di frasi fatte che diventa l'alternativa - comoda - al costruirsi un'opinione propria. Sarebbe interessante, a mio parere, mostrare agli italiani come funzionano le cose all'estero e come università - spesso prese come esempio mitico - siano diventate e restino eccellenti. Perché l'impressione che ho è che in Italia si viva - o si voglia vivere - in una specie di salottino privato del tutto incurante e svincolato da ciò che accade fuori. Uscendo dal salottino ti rendi conto che tutto va ad un'altra velocità e quello che sembra in patria problema insormontabile, tenzone politica, gradino invalicabile, scandalo pruriginoso, all'estero è visto come solita opera buffa all'italiana, divertente ed incomprensibile, ma del tutto insignificante. Il problema però esiste e non fa neanche tanto ridere perché se è vero che ci piace rotolarci tra i rifiuti della polemica, con le dichiarazioni istituzionali seguite dall'inattività pratica è anche vero che il meccanismo è in irreversibile disfacimento ed il peggio arriverà presto.

Torniamo quindi al tema principale e, toccando alcuni punti, cerchiamo di raccontare qualcosa di reale. Partiamo dal concetto di Università: L'Università non esiste. Esistono LE università. E' evidente - a quanto pare non a tutti - che le necessità di un ricercatore di Storia non siano le stesse di un ricercatore di Scienze Biologiche e tutti i discorsi su un'astratta ed omogenea entità chiamata "Università" sono segno di scarsa qualità dell'analisi. Dunque, io non so quali siano le spese delle facoltà umanistiche ma so bene che far funzionare un laboratorio di ricerca costa ed anche tanto e tagliare uniformemente i fondi dell'entità - inesistente - "Università" significa penalizzare chi costa di più non per spreco ma per necessità. Detto questo, sarebbe bene anche rendere i controlli sulla spesa più stringenti e questo, per alcune facoltà scientifiche, non sarebbe nemmeno tanto difficile perché se un laboratorio - trascorso un ragionevole lasso di tempo - non pubblica articoli, non partecipa a network internazionali e non collabora con nessuno è difficile che stia ricercando qualcosa. Inoltre, questo tipo di giudizio è alquanto oggettivo perché del tutto indipendente dalla presenza-assenza di baroni e relative discendenze. Nelle università però tutti sanno chi fa ricerca e chi non la fa ma il trattamento resta comunque lo stesso.

Dunque, il primo dato dal mondo reale è che la ricerca costa molto ed ogni discorso serio sull'università non dovrebbe prescindere dal fatto che avere ottime idee e non poterle realizzare è come non avere ottime idee. Per questa ragione, l'Unione Europea mette a disposizione fondi per finanziare la ricerca all'interno di programmi definiti "strategici". E qui arriva il secondo dato dal mondo reale: in molte università italiane tutta la fase di ricerca fondi, studio della regolamentazione e compilazione della documentazione non è svolta da personale dedicato ma dagli stessi ricercatori che se va bene si dividono tra laboratorio e carte, se va male abbandonando definitivamente il laboratorio per le carte.

Una pittoresca idea che ho sentito in questi giorni è quella che l'università sia un posto in cui una generica figura denominata "ricercatore" occupi il suo tempo trotterellando allegro sui prati verdi della scoperta. Prima di tutto va chiarito che in università esiste una gerarchia. E in virtù di questa gerarchia, spesso accade che il professore associato fa ciò che dovrebbe fare il professore ordinario ed il ricercatore fa ciò che dovrebbe fare l'associato. E siccome anche il ricercatore non vuole essere l'ultimo anello della catena alimentare, ciò che non fa lui lo farà il dottorando. Inoltre, si sottolinea sempre troppo poco il fatto che l'università riesce ad andare avanti non solo grazie al personale ufficiale ma anche grazie a quella marea "atipica" che, con l'orizzonte contrattuale di un anno, fa ricerca, lezioni, laboratori senza tutele e rappresentando una risorsa preziosa a basso costo.

Infine, tocchiamo un argomento interessante: la scoperta e le sue conseguenze. Nonostante molti amino immaginare la scienza come distante dal vil denaro, in realtà quando un'idea è buona le ricadute economiche e pratiche possono essere notevoli. Si stima che i ricercatori italiani emigrati all'estero abbiano prodotto una ricchezza in termini di valore di brevetti pari a quattro miliardi di euro. Ciò significa che il costo sostenuto per la formazione è tutto a carico dell'Italia, i profitti invece sono a favore del resto del mondo. In effetti, siamo un paese generoso. Ma perché non è facile brevettare prodotti universitari in Italia? Le ragioni sono varie ma, oltre al totale disinteresse pubblico nei confronti di ciò che si produce nelle università, una vera malattia cronica è la mancanza di un meccanismo semplice che non obblighi lo scienziato con una buona idea ad occuparsi di ciò che non conosce (burocrazia, legislazione, analisi di mercato, analisi dei costi, profittabilità). Ci sono paesi che considerano la ricerca scientifica con grande rispetto perché, se ben gestita, rappresenta un asset prezioso sotto molti aspetti e, saputo dell'esistenza di stati benefattori come l'Italia, propongono ai ricercatori stranieri delle condizioni talmente vantaggiose che rifiutare diventa impossibile. In pratica, se l'idea è valutata come interessante, il ricercatore viene aiutato sotto tutti i punti di vista fino alla commercializzazione finale del prodotto. L'ente aiutante si prenderà in cambio una buona percentuale dei profitti ed il ricercatore, oltre alla rimanente percentuale, vedrà la sua idea diventare realtà in tempi ragionevoli. In Italia, in qualche università ed istituto, esiste qualcosa di simile ma non è certo la regola. Ad onor del vero, qualcuno sostiene che un meccanismo così orientato al risultato potrebbe ridurre la creatività del ricercatore. Io penso che sia molto più pericoloso per la creatività del ricercatore il vedere le proprie idee diventare scoperte di altri solo perché si è atteso troppo aspettando fondi, personale e macchinari per realizzarle. Inoltre, il rischio di riduzione della creatività non sembra spaventare tutte le persone in gamba che abbandonano l'Italia.

Di fronte a questa situazione dolosamente sterile, i politici e l'informazione che fanno? Tirano fuori la solita storia che dovrebbe consolare il paese: il genio italiano conquista il mondo! E' vero, i ricercatori italiani spesso sono eccellenti ricercatori e quando vanno all'estero se ne rendono conto anche loro - difatti non tornano più - ma questo è un vanto solo a metà. Accanto a situazioni di evidente spreco, genealogia, fannulloneria e sindromi da "Mi sono sistemato ed ora chissenefrega", esistono ottimi ricercatori e sapere di avere un potenziale elevato in casa e poi vederlo sprecare ogni giorno per ragioni che non riguardano la ricerca ma il totale disinteresse, impreparazione e disorganizzazione è deprimente. Ed ancora più deprimente è l'uso cinicamente politico che ormai si fa di ogni cosa.

Nessun commento: