giovedì 27 ottobre 2011

Assuefazione ricorsiva

"Non è che gridiamo allo scandalo solo per salvarci la coscienza?". Su questo amletico dubbio, Aldo Grasso ci avverte oggi dal Corriere della Sera che forse - ma solo forse, eh - ci stiamo abituando al dolore. Timidamente, con una cravatta a righe orizzontali in accordo perfetto con il suo commento monotonale, solleva l'argomento a cui nessuno aveva mai pensato. E con la ricorsività che è propria della tv che parla di sè stessa, mentre ci rivela che il dolore è ormai palinsesto quotidiano, alla sua sinistra scorrono le immagini del linciaggio di Gheddafi e della morte in pista di Simoncelli. Complimenti.

L'effetto di riflessioni come questa è sempre lo stesso: un significativo "ha ragione". E poi si ritorna a seguire speciali Rai o Mediaset sui delitti più efferati perché è così che ci si fa un'opinione ed è così che ci si sente dalla parte dei giusti e dei buoni, di quelli che si scandallizzano tutti insieme, di quelli che ne possono poi parlare agli amici o al lavoro. Voyerismo. Solo curiosità asettica, quella senza rischi che tanto se guardi dal buco della serratura nessuno se ne accorge, non senti l'odore del sangue o della paura e non senti nemmeno più che il dolore altrui esiste in televisione per vendere pubblicità.

E se domani quel dolore ad uso altrui fosse proprio il tuo? Se accendendo la televisione, giorno dopo giorno, ti accorgessi di essere diventato un Truman Burbank, che vive nel proprio mondo reale mentre gli altri osservano, morbosi e curiosi, il tuo comportarti da essere umano.

Ti chiederesti ancora: "Non è che ci stiamo abituando?".

giovedì 6 ottobre 2011

Think different.


Molti anni fa, condividevo la terrazza di casa con un amico ingegnere elettronico. Volevo acquistare un computer e lui mi disse: "Perché non prendi un Mac? E' fatto meglio degli altri ed ha un ottimo sistema operativo. Ed è anche bello!".
Ecco, a me questo "Ed è anche bello!" mi si è appiccicato addosso. Non avevo le conoscenze tecniche per capire se un computer fosse davvero meglio di un altro. Però ero in grado di capire cosa fosse bello. Mosso, così, da puro senso estetico, acquistai il mio primo Mac LC e da quel giorno cominciai a fare caso al bello e mi domandai: Perché non costruiscono tutti cose belle?
Dopo un po' di tempo, dovetti cambiare la RAM e il disco rigido all'altro computer che avevo in casa, un (brutto) PC. Una volta aperto il case mi colpì tutto quello spazio inutilizzato, i riccioli di polvere, le matasse di cavi avvolte disordinatamente tra loro. Nello staccare lo spinotto di alimentazione del disco rigido, poi, mi tagliai. Allora decisi di aprire il Mac: niente spazio inutilizzato, niente matasse di cavi e tutto si faceva con cassettini estraibili. E lì, con un bel taglio sul polso, compresi che il bello era anche buono. Dietro c'era un bel progetto.
Con il tempo notai che il progetto non si fermava lì. Per esempio, lo si trovava nel packaging: belle e pratiche scatole con dentro piccoli capolavori di ordine. Oppure nella pubblicità, sempre elegante, minimale ed arguta. Ed ancora, nei particolari come la graffetta per aprire lo sportellino della sim card nell'iPhone... Tutto coerente con un'idea.
E quando ti abitui all'idea che i prodotti possono essere fatti integralmente bene non ti basta più il prezzo basso se poi i pulsanti ballano sotto le dita né la potenza di calcolo se poi, per ore ed ore al giorno, devi lavorare su uno triste coso nero.
E, ultima ma non ultima, Apple ha una storia. Una bella storia. Che coincide con la vita del suo creatore. Riconosciuto come uno dei più grandi comunicatori del pianeta, che però non rilascia interviste ed un giorno, premiato con una laurea ad honorem, se ne esce con uno dei discorsi più belli che una persona possa fare.
E' strano perché alla fine stiamo parlando di cose, ma mi dispiace che Steve Jobs oggi non ci sia più. Scrivere questo post sul mio bellissimo MacBook ha un sapore particolare ma è il miglior saluto che sono in grado di fare a Steve.

Stay Hungry. Stay Foolish.